Forebandìta

La poesia «Forebandìta» fu pubblicata da Michele Pane nel volume «Peccati» uscito nel 1917 presso la casa editrice The Emporium Press di New York.

Il volume è suddiviso in due parti. la prima, preceduta dal titolo Peccati, contiene le poesie che, per contenuto, più propriamente si addicono al titolo scelto per l’intero volume. Si tratta delle famose poesie a contenuto erotico che appartengono a un preciso periodo della vita del poeta, quando, ormai in America da anni, rievoca le sue avventure giovanili con le belle compaesane. La seconda parte è preceduta dal titolo Calavrisella e costituisce forse il nucleo di quella che sarebbe dovuta essere una pubblicazione più volte annunciata ma di fatto mai portata a termine.

copertina "Peccati"

Pur condividendo col complesso del volume il tema amoroso − e forse più che amoroso − questa seconda parte che è composta da sole due poesie, appare piuttosto come un’esaltazione della bellezza e certamente anche della sensualità di una ragazza ma non più di questo. Nonostante le parole infuocate che il poeta dedica al monumento di bellezza femminile incarnato da Bandera, non mi  sembra di poter equiparare alle altre poesie di Peccati questa Forebandìta, e che giustamente Michele Pane pubblica nella seconda parte di Peccati.

Per comprenderne appieno il significato della occorrerebbe conoscere tutti i termini usati da Michele Pane e la cui traduzione in italiano non sempre riesce a renderne il significato completo. Forebandita non significa propriamente «fuorilegge» perché quella ragazza non vive come le brigantesse con il fucile a tracolla e non è la druda di nessun ricercato. E’ un vezzeggiativo che, forse, potremmo paragonare a quello della «Bersagliera», la ragazza che faceva girare la testa al maresciallo Carotenuto-De Sica nel famoso film di Comencini. Ma la somiglianza non può reggere fino in fondo perché se la Bersagliera-Lollobrigida è una ragazza carina ma modesta nell’atteggiamento, nel vestire e nel portamento anche per le sue modeste condizioni economiche, Bandera invece è consapevole della sua bellezza e la mostra con orgoglio, valorizzandola con un abbigliamento ricercato che ne esalta le fattezze.

Anche di un’altra cosa Bandera è consapevole e lo dice esplicitamente al poeta-studente-corteggiatore: la differenza di condizioni economiche tra le loro famiglie impedirebbe un loro legame. Ma questa consapevolezza non impedisce alla ragazza di cedere al corteggiamento insistente del suo spasimante e seguirlo per trascorrere una notte insieme a  lui, scappando fuori dal paese, nascondendosi tra burroni e con la compagnia dei grilli e del rumore dell’acqua corrente. I versi finali «l’amure càngia; ma passa lla vita!», “l’amore cambia ma intanto la vita se ne va!“, riportano l’autore alla sua realtà quotidiana, tanto lontana e diversa dai tempi felici della gioventù.

Scenari Visibili

Questa poesia è stata una di quelle scelte dall’attore Dario Natale della compagnia Scenari visibili di Lamezia Terme per l’azione teatrale dal titolo «Maicu Man» che si è svolta nel centro storico di Adami il giorno 7 agosto 2016. Dario Natale si è dimostrato un interprete di primissimo piano dei testi di Michele Pane. L’azione si è svolta nello spazio antistante la casa in cui avevano vissuto i fratelli Luigi e Rosarino Costanzo, i suoi più cari amici di gioventù, e cioè in una delle strade che il poeta chissà quante e quante volte avrà percorso.

Articolo Maicu Man

L’interpretazione è stata superba e il testo ha seguito quello della poesia, tranne qualche piccolo indispensabile adattamento. Quello che propongo qui di seguito è il video che ho girato in quella occasione e in cui ho inserito i sottotitoli con i versi recitati da Natale e la traduzione in italiano, sperando di fare cosa gradita a chi non era presente e alla stessa compagnia teatrale.

Giuseppe Musolino

 

 

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‘A tabacchera

 

 

La poesia ‘A tabacchera (La tabacchiera) di Michele Pane è stata pubblicata la prima volta in Trilogia (1901), la sua opera di esordio nella poesia, se si esclude L’uominu russu del 1899 che era un’opera di tutt’altro genere.

 

Copertina Trilogia

Copertina Trilogia

Il titolo del libro viene dal contenuto dello stesso e cioè dalle tre sole poesie che ne fanno parte (vedi il relativo articolo), e cioè ‘A tabacchera, ‘A catarra, ‘U dobotte.

‘A tabacchera è la poesia d’apertura ed è dedicata a Riccardo Cordiferro, l’amico americano di origini calabresi con cui Michele Pane era legato fin dai primi anni di residenza a New York dove Cordiferro dirigeva La Follia di New York.

Riccardo Cordiferro

Riccardo Cordiferro

Il tema è l’elogio della tabacchiera, fedele compagna che non tradisce, amica dei momenti tristi che non sono mancati nella vita del suo proprietario, e cioè il Michele Pane stesso. Ora occorre notare che quando pubblica la poesia Michele Pane ha 25 anni. E’ nel pieno della gioventù, vive ancora la sua adorata mamma, ha tutto un avvenire davanti, eppure sembra scritta con il tono del rimpianto e l’amarezza di chi in vecchiaia ripensa alla vita sfuggitagli di mano, scivolata via senza offrirgli alcuna felicità. Si può dire che si tratti di una poesia profetica, perchè nulla si sarebbe dovuto cambiare se fosse stata scritta alla fine della vita, all’età di 70 anni, come si desume dalla finzione dei versi in cui colui che parla afferma di averla con sè da più di cinquant’anni.

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Azzarelleide

Azzarelleide è un poemetto pubblicato per la prima volta in Viole e ortiche nel 1906 ma era stato composto già da molti anni. Lo testimoniano innanzitutto la pubblicità in quarta di copertina di Trilogia  pubblicata nel 1901 in cui si legge «Di prossima pubblicazione: Azzarelleide (Vrogniata in la maggiore)».

Quarta di copertina di Trilogia

Quarta di copertina di Trilogia

Non si è molto lontani dalla verità se si ipotizza che Azzarelleide sia stata composto nello stesso periodo de L’uominu russu con il quale condivide le stesse tematiche e, forse, anche gli stessi personaggi.

In Viole e ortiche fa parte di Ortiche,  e quindi si pone nel filone delle opere contro gli uomini malvagi e ingordi, che approfittano della loro posizione per curare i propri affari andando contro moralità e giustizia.

Azzarelleide

Azzarelleide

E veniamo al merito dell’opera. Innanzitutto, il titolo. E’ evidente il riferimento ad un’opera epica suggerito dal suffisso -eide che vuole richiamare l’Eneide o forse anche l’irriverente Ceceide di Vincenzo Ammirà. Il personaggio di cui si narrano le “eroiche” vicende è Azzarielllu, quarto figlio nientemeno che di Marte! Pane si riferisce sicuramente a un’altra persona, un uomo in carne e ossa che si vuole prendere in giro — come era accaduto con L’uominu russu — ma di chi si possa trattare è un vero mistero. Forse i contemporanei avrebbero potuto capirlo da qualche riferimento che però ormai è troppo difficile, anzi impossibile, decodificare.

Soffermandosi sul sottotitolo «Vrogniàta in La maggiore» c’è già di che scrivere e approfondire.
La vrogniàta: ma che cos’è? E’ una parola inventata da Michele Pane stesso a partire da vrogna. La vrogna (“brogna” in italiano) è uno strumento musicale primitivo, una grande conchiglia usata come corno. In genere si usava il guscio del Triton nodiferum, un mollusco che arriva alle dimensioni di 30-40 cm, che la mitologia vuole venisse usato da Tritone per agitare o placare le acque. Ne è un esempio la statua della fontana del Tritone di Bernini in Piazza Barberini a Roma in cui Tritone è rappresentato nell’atto di soffiare dentro una «vrogna» detta anche «buccina» (da bocca) dalla quale scaturisce uno zampillo d’acqua.

Fontana del Tritone - Roma

Fontana del Tritone - Roma

La vrogna è uno strumento usato originariamente da popolazioni costiere, successivamente passato in uso anche alle popolazioni dei paesi interni. Qui, poi, data la difficoltà di procurarsi la conchiglia, è stato lentamente sostituito da uno strumento simile ricavato dal corno di animali come i bovini che nelle antiche razze ne avevano di giganteschi. Il suono che produce la vrogna è una bassa tonalità che però ha la caratteristica di propagarsi per lunghe distanze, caratteristica che condivide con il corno alpino (quella specie di pipa lunghissima), e tutti gli altri corni usati specialmente nelle montagne come mezzo di comunicazione tra persone (specialmente come segnale di pericolo o dare il via a qualche attività) o per richiamo delle greggi.

porcaro

Il custode dei maiali mentre suona la "vrogna"

Ecco un esempio del suono di una «vrogna» (registrazione del 1961 eseguita a Siracusa):

 

Un interessante collegamento con la «vrogna» esiste nell’etimologia del nome del paese di Brognaturo, in provincia di Vibo Valentia, nel quale è evidente il nesso tra lo strumento e il nome proprio della località derivato dalla circostanza di essere un luogo in cui venivano pascolati allo stato brado animali (verosimilmente maiali) che poi venivano richiamati con l’apposito strumento (vedi l’interessante studio pubblicato qui)

Suonare la vrogna si dice vrogniare, come faceva il pastore o il porcaro che andavano suonando il corno per le campagne per richiamare e radunare i propri animali. Da qui è nato l’uso figurato del verbo vrogniare che equivale ad «andare a strombazzare» cioè ad andare in giro raccontando ad alta voce cose poco edificanti nei riguardi di qualcuno. Insomma «svergognare», che poi è l’intento di Michele Pane.

La parte I, dopo la dedica, inizia con questi versi:

Mo’ s’ùsanu le trumbe ed è vrigogna

         sonare chista marcia ccu’ lla vrogna.

E qui inizia la narrazione delle vicende del personaggio cui è dedicata l’opera,  Azzariellu, a partire dai suoi natali fino alle imprese più inverosimili che avrebbe compiuto.
Il nome Azzariellu è il diminutivo di azzaru, “acciaio”, quindi dovrebbe un uomo forte e coraggioso, ma non è così come si vede dalle sue gesta donchisciottesche.
Commentare tutto il poemetto è un’impresa che esula dai fini di questo sito anche perché, come detto sopra, i riferimenti a persone e fatti sono troppo oscuri e nessuno ha mai tentato l’impresa di scavare a fondo nei versi per arrivare a ciò che vi si nasconde. Quel che si può fare qui è fornire un riassunto delle strofe sperando che prima o poi qualcosa in più, oltre il significato letterale, si riesca a decifrare.

AZZARELLEIDE

I

Azzariellu, figlio di Marte, era l’ultimo di quattro fratelli. Il primo si chiamava Spavìentu (Spavento), era veloce più del vento proprio come un uccello rapace.
Ma era avvezzo al vino che preferiva alla lotta e perciò il padre non ne era molto contento.
Il secondo fratello si chiamava Cacacchiu (Fifa) ed era abilissimo nel tiro col fucile. Se andava a caccia, il sangue scorreva a fiumi ma anche di lui il padre era scontento per motivi che non si possono dire (così afferma il poeta).
Il terzo si chiamava Fracassa, grande raccontatore di frottole fin da piccolo e quindi il padre non se la sentì di affidargli il comando delle squadre militari che aveva ai suoi ordini.
E infatti il compito di comandare tali squadre di uomini  fu affidato all’ultimo nato, proprio l’Azzariellu cui è dedicata l’opera.

II

Azzariellu dunque si veste d’autorità e al comando della gente che aveva provveduto ad arruolare (suonando la vrogna per richiamare l’attenzione).
Nei versi seguenti Michele Pane descrive le iperboliche dimensioni degli accessori militareschi di cui si dota Azzariellu: spada di un quintale, giberna fatta con la pelle di un’intera cavalla, capace di contenere pane quanto se ne produce in quattro forni, pallottole quanto una braciola (crocchetta), ecc.
Così munito va all’attacco del Drago, un terribile mostro dalle sette teste, che si nascondeva in una grotta nella località Sorbello, una zona nei pressi dell’allora frazione Passaggio di Decollatura.
Il perchè della scelta di questa località è impossibile da comprendere con quanto sappiamo (anzi non sappiamo) oggi.

III

Azzariellu giunge quindi all’ingresso della grotta da dove il Drago, vedendolo arrivare, era già morto dalla paura.
Entra nella grotta il Capitano Azzariellu, pistola in mano, e alla luce della candela accesa dall’aiutante di campo (lo schiavo —scavu— è scritto nei versi) appare il Drago morto per il terrore.
Azzariellu ordina all’aiutante di scuoiare il mostro dopo che egli stesso con la spada lo ha diviso in due.
Quel cuoio servì poi per confezionare una pelliccia per un tale che indossandola acquisisce poteri sovrumani e vince tutte le cause, essendo un avvocato e, forse, anche un politico.
Con questo riferimento esce allo scoperto Michele Pane, rendendo esplicito (lo fa ancora di più nei versi seguenti) il riferimento ad uomini avidi e ingordi, in qualche modo contigui al potere che ha in mano il Comune di Decollatura in quel momento. E infatti, squartando e sezionando la bestia immonda, Azzariellu trova in una piega del gigantesco intestino, nientemeno che un intero edificio, il Municipio! Era stato completamente spolpato dal mostro!
Per portarli in omaggio agli altri suoi amici, Azzariellu fa staccare dal corpo del Drago un orecchio, del grasso per ungere stivali, ecc.

IV

Il successo di Azzariellu non fu però completo. Mancava all’appello il tesoro che tuttora lì rimane protetto da un incantesimo.
Dopo aver preso quel che gli serviva, Azzariellu fece rotolare fuori dalla grotta, giù per il pendio, i resti del mostro e solo rimase nella grotta un grosso dente.
Ed è quel dente che il cane del poeta trovò quando, inseguendo un furetto, si addentrò nella grotta.
Oggi, quel dente aguzzo, “lo uso io” — dice il poeta—. Per pungiglione!

 

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Tora

Tora è una delle più belle, conosciute e apprezzate poesie di Michele Pane. La bellezza è data dalla delicatezza dei sentimenti e dalle parole scelte per esprimerli. La descrizione della figura di Tora poi è una delle più riuscite del poeta.
Tora è una vecchietta che abitava nei pressi della casa dei Pane ed è certamente una persona realmente esistita che probabilmente aiutava la famiglia del poeta nei lavori di casa, se non anche in quelli dell’orto. Non è necessariamente stata una loro persona di servizio, come si potrebbe dedurre dal fatto che portava qualche fascina di legna quando andava nella casa, perché nei rapporti che si instaurano tra le persone di un piccolo centro, non ci sono soltanto quelli legati ai “contratti” economici di subordinazione ma, per fortuna, anche quelli “sociali” e affettivi. Tora quindi poteva avere mille altre ragioni per essere affezionata alla famiglia Pane e recarvisi quotidianamente per visitarla e condividere il freddo e i problemi o un po’ di calore generato dalla fascina di frasche che essa stessa portava. E poi l’uovo, il regalo che saltuariamente le sue galline le concedevano e che lei portava in una casa che le uova avrebbe potuto procurarsele altrimenti, allevando le proprie galline, ma che lei portava in segno di amicizia. E allora perchè pensare, come quasi tutti hanno fatto, che Tora fosse una specie di domestica – niente di strano, in ogni caso – e non semplicemente una persona legata da affetto e amicizia a Serafina e ai suoi figli. Una persona che, forse perché senza famiglia, aveva desiderio di stare insieme agli altri, a persone con le quali condividere quel poco che aveva. E sicuramente la generosità non sarà stata solo in una direzione, forse anche lei avrà ricevuto qualcosa di cui aveva bisogno, prima di tutto l’affetto e, poi, una poesia che l’ha resa immortale! Questo tipo di rapporto, incomprensibile a qualcuno, era invece piuttosto diffuso un tempo, e si è mantenuto in molti casi ancora oggi: persone che si legano a famiglie con le quali instaurano un rapporto di amicizia, di vicinato, di frequentazione disinteressata. Ecco, forse questo potrebbe essere essere il quadro più corretto in cui collocare la figura di Tora.

Vecchia con un rosario - Paul Cézanne

La poesia fu pubblicata in Italia per la prima volta nella raccolta Accuordi. Stroffe ‘ncalavrise stampata a Napoli presso l’editore Casella nel 1911. Non è detto che sia stata quella la prima pubblicazione della poesia, poiché Michele Pane aveva pubblicato già qualcosa su La Follia di New York e altri giornali americani. Non avendo la possibilità di verificarlo (e come si potrebbe?) mi limito a segnalarla come ipotesi, che però non modifica il fatto che sia il 1911 l’anno in cui si considera come pubblicata la poesia Tora .

La poesia è dedicata « Alla mia dolce mamma ed alle care mie sorelle lontane »

TORA. TORA.
Quandu lu viernu cc’era la vuòra
fridda, o jazzava,
chilla bon’anima cara de Tora
pped’ogni jurnu ne visitava.

Venìadi priestu la vecchiarella
affezionata,
e ne portavadi ‘na sarcinella
ppe’ ni ‘nde fare nue ‘na vampata.

E certe vote me dicìa: Caru,
te’ l’ovicelle;
sû puocu, fìgliuma, cà mo’ scacarû
(le vijad’ecate!) le gallinelle.

Quando d’inverno c’era la bora
fredda, o nevicava,
quella buon’anima cara di Tora
ogni giorno ci visitava.

Veniva presto la vecchiarella
affezionata,
e ci portava una fascina
per farcene una vampata.

E qualche volta mi diceva: Caro,
eccoti le uova;
son poche, figlio mio, perché ora sono isterilite
(sian maledette!) le gallinelle.

 

Su queste prime strofe si sofferma particolarmente Luigi Costanzo, l’amico prete e uomo di cultura di Michele Pane, nella sua Della poesia di Michele Pane del 1953, pubblicata come omaggio all’amico appena scomparso. Per lui Tora «è poesia foggiata con autentica purezza greca. Il cuore della buona vecchietta che, d’inverno, sfidando la tramontana o la neve, veniva portando ” na sarcinella”, una manata di rametti secchi, “ppe’ ni ‘nde fare nue ‘na vampata” e portava anche le uova fresche che presentava con amabile garbo, scusandosi della loro pochezza e imprecando alle “gallinelle” che col freddo isteriliscono, non poteva essere meglio dipinto: cuore “tennaru – cumu ‘nu friscu gigliu d’aprile”».
Bellissime le parole scelte per descrivere l’arrivo in casa di Tora e le cose che portava in dono: le poche uova che le sue galline ancora le donavano e un po’ di legna per scaldarsi Ma è un riscaldamento temporaneo, una “vampata”, quella sola che è in grado di offrire una “sarcinella”, un piccolo fascio di rametti secchi, rimediati chissà come. Forse rametti secchi staccati da un basso albero o raccolti per terra, staccati dal vento gelido dai rami più alti, oppure qualche vecchio tralcio di vite, conservato dall’anno precedente, in grado solo di offrire un effimero riscaldamento; insomma un fuoco di paglia!

E poi le uova, anzi “ovicelle” che don Luigino dice giustamente  essere termine intraducibile: e come tradurlo? gli ovetti ? No!, oggi significherebbe un’altra cosa! E’ un diminutivo giustificato dall’interlocutore che è un bambino (è a lui che Tora dona le uova) e dall’affezione e la cura con cui sono portati per il loro intrinseco valore nutritivo e simbolico. E poi ci sono quelle povere galline, morte di freddo, anch’esse, e senza cibo. E sì perché le galline, un tempo, non venivano certo tenute dentro un pollaio recintato e nutrite con cereali! Per loro, neanche gli avanzi di cucina, semplicemente perché non c’erano avanzi di cucina e poi il maiale vi avrebbe avuto la precedenza: no, le galline dovevano uscire dal loro ammasunaru e andarsene in giro a procurarsi il loro cibo. Tutte le cartoline e fotografie scattate nei paesi e anche nei centri più grossi come Nicastro, almeno nelle vie più popolari, fino a dopo gli anni sessanta, vedono sempre presente qualche gallina che liberamente razzola per le strade alla ricerca di qualcosa da mangiare. E per distinguere le proprie da quelle dei vicini, le donne usavano legare un nastro di stoffa colorata ad un’ala come contrassegno ben visibile ed evitare contese di proprietà con le vicine. Con l’arrivo dell’inverno la disponibilità di cibo diminuisce drasticamente; non c’è più erba o altro da rimediare per le strade e comunque la neve toglieva ogni speranza. Per questo motivo d’inverno le galline sospendono la deposizione delle uova, non isteriliscono definitivamente, ma “scacanu”, diventano improduttive temporaneamente e reversibilmente. “Scacare” significa proprio fare cilecca, sbagliare colpo – anche nel gioco – ed è per questo che l’ultimo nato di una nidiata (di pulcini, di uccelli o anche di cagnolini), viene detto ” scacaturu “, destinato a soccombere sopraffatto dalla vigoria dei fratelli che sistematicamente e inesorabilmente si accaparrano le risorse alimentari disponibili.
L’imprecazione ” le vijad’ecate “, che don Luigi traduce con “siano maledette”, è un’espressione non così malevola come la traduzione letterale sembrerebbe suggerire. La parola ecate trae origine dall’identico nome Ecate, dea della morte o, meglio, la dea che è capace di mettere in comunicazione il mondo dei vivi con quello dei morti. Il significato, quindi, di ” le vijad’ecate ” può essere correttamente inteso come “vadano all’inferno”.

Luigi Costanzo così introduce il commento ai successivi versi: «Vien, dopo, il ritratto fisico col ricordo della sfiorita bellezza; ora, eccola, curva, disseccata, rugosa: tuttavia piena di nativa dolcezza»:

Tora passava forsi ccu’ll’anni
la novantina,
ma nun sapíadi cchi ssû malanni,
mai avía provatu ‘na medicina.

‘Icica fòdi de ‘sti cuntuorni
la cchiù pulita
alli sui tiempi: (vòlanu i juorni
bielli d’ ‘a nostra povara vita!)

Er’arriddutta ‘na croccarella
moni ‘ntostata;
restàte l’eranu l’ossa e lla pella
e avìa lla facce tutt’arrappata.

Tora passava forse con gli anni
la novantina,
ma non sapeva cosa sono i malanni,
mai aveva preso una medicina.

Si dice che fu di questi dintorni
la più bella
ai suoi tempi (volano i giorni
belli della nostra povera vita!)

Era ridotta curva
ora, indurita;
restate le erano le ossa e la pelle
e aveva il viso tutto rugoso.

Tora era vecchia, sì!, rugosa, anche!, ma che splendida figura: «quando parlava, che incanto! Loquacità festosa, cordiale, illuminata da viso materno. Soavità sorridente e vezzosa anche nei frequenti diminutivi intraducibili: “sarcinella” “ovicelle” “gallinelle” “friddiciellu” “parachiellu” “missicella” “vecchiarella”. […] Questa celebrazione, semplice ed alta, spira tale senso di simpatia e di rimpianto che ci appare come una luminosa figurazione simbolica della sempreviva e patriarcale virtù del popolo più umile e più sano».

‘Mperò tenìadi illa lu core
sempre gentile;
‘nu core tènnaru tenìadi ancore
cumu ‘nu friscu gigliu d’aprile.

Pàrca la sientu mo’: – Bontrovàti!
Vue cchi facìti?
Vue cumu stati? Vue cumu stati?
‘Stu friddiciellu nu’llu sentìti?

Nue rispundíamu: Bonavenuta!
lestu, allumàmu:
pperchídi, o Tora, te sî perduta?
mo’ ven’assèttate, ca ne scarfàmu.

E tuttavia lei aveva il cuore
sempre gentile;
un cuore tenero aveva ancora
come un fresco giglio d’aprile.

Mi par di sentirla ora: -Bentrovati!
Voi cosa fate?
Voi come state? Voi come state?
Questo freddicello non lo sentite?

Noi rispondevamo: Benvenuta!
presto, il fuoco accendiamo:
perchè, o Tora, da molto non sei venuta?
ora vieni e siediti, che ci riscaldiamo.

Arriva Tora che forse non si vede in quella casa da molto tempo, accolta dalle parole che, allora come ora, ne sottolineano l’assenza ingigantita dal rimpianto di non aver goduto della sua presenza: ” te si perduta?”, “ti eri smarrita?” E subito si accende il fuoco, per festeggiare, dal momento che prima era spento, per la tristezza che aleggiava nella casa e per la cronica mancanza di combustibile, avendo riservato la poca legna all’indispensabile cottura del cibo e non a riscaldare i corpi dell’infreddolita famiglia, come sarebbe stato necessario. Se non si comprende questa atavica mancanza di calore, questa fame mai saziata del calore che ristora nelle tremende giornate invernali, non si comprende il significato che ha assunto col tempo l’immagine della famiglia riunita intorno al focolare al quale Michele Pane ha dedicato molti versi.
Acceso dunque il fuoco, l’atmosfera si scioglie, si comincia a parlare in un clima più allegro:

E llà, sedut’allu vancariellu
d’ ‘u focularu,
pue me dicìadi: – Figliuma biellu,
ti cce fai prievite?

fígliuma caru,fattícce prievite, cà tu cce mieri
pperchì sì biellu;
nu’ stare a sèntere ss’àutri livrieri,
tu t’hai de fare ‘nu parachiellu —

Puru me dici ‘na missicella
quandu pue muoru;
rifríschi l’anima d’ ‘a vecchiarella
ch’è ‘m purgatoriu, duce ristuaru! –

– Quandu te minti la suppellizza
arrigamata,
pue piensi a Tora, noni bellizza?
la vecchiarella tandu è orvicata! –

E là, seduta sul panchettino
del focolare,
poi mi diceva: – Figlio mio bello,
ci diventi prete?

figlio mio caro, fattici prete, che ben ci figuri
perché sei carino;
non dare ascolto a quegli altri fannulloni,
tu devi diventare un pretino —

Pure mi potrai dire una messa
quando poi morirò;
rinfrescherai l’anima della vecchietta
che è in purgatorio, dolce ristoro! –

– Quando indosserai la tonaca
ricamata,
poi penserai a Tora, non è vero bello mio?
la vecchietta allora sarà seppellita! –

Tora vede già Michele Pane vestito con la tonaca del prete, o almeno è questo che gli augura e si augura. Immaginare un futuro da prete per un giovane era un buon augurio e un complimento. Si sarebbe trattato di avere un prestigio personale, una posizione di riguardo e anche, diciamolo pure, una posizione economica sicura. Nella famiglia di Michele Pane c’erano stati già due zii paterni preti, Michele e Antonio, che Tora, data la sua età, aveva sicuramente conosciuto. Non sarebbe stato poi molto inverosimile anche per il giovane Michele abbracciare la stessa carriera, e Tora quindi lanciava un auspicio che in altre condizioni avrebbe avuto ottime probabilità di verificarsi. In più Tora invita Michele a non dare troppo ascolto agli altri giovani perditempo (cani livrieri , cioè come i cani levrieri, che corrono velocemente ma  non sono utili all’uomo perchè non lavorano come invece fanno i cani da pastore, da guardia o da caccia), i giovani con cui Michele passava le sue giornate nel paese.

Ma il giovane Michele vuole cambiare argomento: non gradisce il discorso sul suo futuro da prete e nemmeno quello sulla morte di Tora:

 

No, parra d’àutru, oi Tora mia,
a mie perduna;
lassa li prieviti alla sacristia,
‘mpàrame, ‘mpàrame tu ‘na canzuna;

Cà pue la cantu io a ‘na quatrara
ccu’ lla catarra,
quandu me fazzu ‘rande: m’è cara
cchiù ‘na furracchia, ca la zimarra.

E ‘un de parrare, nun de parrare
cchiù dde morire,
cà si tu muori cum’àmu ‘e fare?
le rumanzelle chi n’ ‘e sa dire?

Io le dicíadi, ed illa ‘ntantu
– ccu’ pizzarrisu –
me rispundìadi: – Te vija santu,
‘nu santariellu d’ ‘u Paradisu! –

No, parla d’altro, o Tora mia,
perdonami;
lascia i preti nella sacrestia,
insegnami, insegnami tu una canzone;

Che poi la canterò io a una ragazza
con la chitarra,
quando sarò fatto grande: mi è cara
più una giovinetta, che la tonaca da prete.

E non parlare, non ne parlare
più di morire,
che se tu muori come faremo?
chi le romanze ci saprà dire?

Io le dicevo, e lei intanto
– con un sorrisetto –
mi rispondeva: – Che tu sia santo,
un piccolo santo del Paradiso! –

Tora raccontava favole, rumanze, racconti di fatti, personaggi e luoghi intrisi di miti e leggende universali: tesori, fate… :

E me cuntavadi tante passate
de li briganti:
– A Riventinu cce sû le fate…
– diciadi sempre – ‘nd’anu brillanti!-

Ed appoggianduse pue la cunocchia
supra lu sinu,
dicíadi: – Puru cc’èdi ‘na jocca
ch’àdi de uoru ‘nu pulicinu

e gira sempre dintra li faghi,
dduv’è orvicatu
lu cchiù putente riccu dei maghi
ccu’ lli trisuori; cc’è ‘nu ligatu

ca s’unu ‘a jocca, o lu pulicinu,
pòdi mu ‘ncappa,
chillu trisuaru ch’è a Riventinu,
resta pue ad illu; ma chi l’acchiappa!

…………………………………………….

E mi raccontava tante avventure
dei briganti:
– Sul Reventino ci son le fate…
– diceva sempre – ne hanno brillanti!-

Ed appoggiando poi la conocchia
sopra il suo grembo,
diceva: – C’è persino una chioccia
che ha d’oro un pulcino

e si aggira sempre in mezzo ai faggi,
dov’è sepolto
il più potente e ricco dei maghi
con i tesori; c’è una promessa

che se qualcuno la chioccia, o il pulcino,
riesce a scovare,
quel tesoro che è sul Reventino,
diventa suo; ma chi ci riesce!

…………………………………………….

Si interrompe qui, con una linea tratteggiata, il dolce ricordo di Tora viva, della bellezza della sua persona e della materna tenerezza con cui parlava con il Michele Pane ragazzo. Se si fosse trattato di un film e non di una poesia avremmo visto inquadrato il Michele Pane adulto svegliarsi improvvisamente e tristemente dal torpore trasognato in cui l’aveva immerso il ricordo dei tempi andati. Bei tempi per la presenza di Tora, per la sua giovinezza e, naturalmente, per la sua mamma:

O Tora, o Tora, requimmetèrna
mo’ chi sì morta!
pperchì nun tuorni cchiù quandu ‘mberna?
ti l’hai scordata la nostra porta?

Pperchì nun vieni allu focularu
cumu solìe?
Nue, ad ogni ‘mposta de lu rusaru
chi dice Mamma, pensamu a tie.

E Mamma, Mamma mia bella, dice
ch’ere ‘na santa;
e sempre sempre te benedice
si te ventùma, sempre t’avanta.

Ma tu nun sienti cchiù, cara Tora,
nun sienti ‘u vantu;
nun tuorni quandu mina lla vuòra
e duormi ‘m pace ‘ntr’ ‘u campusantu!

O Tora, o Tora, requiem aeternam
ora che sei morta!
perché non torni più quando è inverno?
ti sei scordata della nostra porta?

Perché non vieni al focolare
come solevi?
Noi, ad ogni mistero del rosario
che dice Mamma, pensiamo a te.

E Mamma, Mamma mia bella, dice
che eri una santa;
e sempre ti benedice
se ti nomina, sempre ti vanta.

Ma tu non senti più, cara Tora,
non senti il vanto;
non torni più quando soffia la bora
e dormi in pace nel camposanto!

Tora non c’è più. E’ inutile ogni sua invocazione fatta durante la recita del Rosario guidata dalla madre Serafina e in tutti i momenti in cui ce n’era l’occasione. Tora ora riposa, per sempre, nel camposanto.
Nella penultima strofa, quando parla della mamma, alla fine del primo verso c’è una nota: « Ahimè, non più! » che si riferisce al fatto che al momento della pubblicazione (1911) la mamma non era più in vita, essendo morta nel 1907.
La nota può aiutare a datare la composizione della poesia ai primi anni del 1900; forse si potrebbe azzardarne la datazione posteriormente al 1905-6 perché Tora non fu inclusa in Viole e ortiche   del 1906 che pure contiene un assortimento di tante poesie ove avrebbe potuto trovare posto una composizione così bella.

In seguito Tora fu inclusa nelle raccolte Musa Silvestre del 1930 e del 1967, senza la dedica e la nota e con solo qualche vocale modificata.

Casa di Tora

Casa di Tora (a sinistra) e casa di Michele Pane (a destra)

 

Targa con la poesia Tora

Targa con la poesia Tora affissa su quella che fu la sua casa, a cura del Parco Letterario-Storico-Paesaggistico di Adami

COPYRIGHT © 2012 Giuseppe Musolino

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‘A fòcara

‘A fòcara

‘A focara è una delle poesie più famose di Michele Pane, pubblicata per la prima volta in Viole e ortiche nel 1906.

Ma quanti sanno esattamente che cos’è la fòcara?
Innanzitutto, ricordiamo che la parola si pronuncia con la  f  iniziale aspirata come la “c” toscana di casa o la h inglese di home. Questa particolare pronuncia, oggetto nel passato di molte discussioni su come si debba tradurre nella scrittura, ha spesso portato al grave errore di inserire una h dopo la  f  (fhocara) o addirittura di usare la lettera h al posto della f.

Questi modi errati di scrivere erano stati già trattati dal prof. Luigi Accattatis nella prefazione al suo famoso Vocabolario del dialetto calabrese e ribaditi nell’appendice a Viole e ortiche (1906) in cui Michele Pane pubblica una nota dell’Accattatis sulla sua poesia. Le parole di Accattatis sono esplicite: «Il delirio di alcuni bravi scrittori calabresi è arrivato fino al punto di scrivere huocu, hidile, hocara, ecc. per rendere il suono aspirato che la labio dentale f  ha in Panettieri ed in altri paesi del cosentino, senza nè meno avvertire i lettori che quella h iniziale sta in sostituzione della lettera f, onde è a leggersi fuocu, fidile, fòcara.» (vedi G. Musolino, Michele Pane. La vita, pp. 77-78).

'A fòcara

Per quanto riguarda l’etimologia di fòcara, ovviamente all’origine c’è il latino focus, da cui focàra che è una specie di braciere. Il nostro fòcara è usato solo in Puglia, precisamente nel Salento, con lo stesso significato di grande fuoco acceso all’aperto, e in Sicilia. Come curiosità ricordo che focora, col significato di plurale di “fuochi”, è una delle prime parole che compaiono nella lingua scritta cosiddetta del volgare italiano, poichè la usa Cielo d’Alcamo nel Contrasto:

«Rosa fresca aulentissima, ch’appari inverso state,
le donne ti disirano, pulzell’e maritate!
Traimi de ’ste focora, se t’este a bolontate,
perché non aio abento notte e dia
penzanno pur di voi, madonna mia».

Questo stesso secondo verso di Contrasto che contiene la parola focora, è citato da Dante Alighieri nel De Vulgari Eloquentia (I, XII) (riportato nella forma «Tragemi d’este focora se t’este a boluntate») come esempio del pessimo giudizio che aveva della parlata siciliana per la lentezza del ritmo.

Ma torniamo alla fòcara. Si tratta di un grande falò che si accende la sera della vigilia di Natale e che poi viene mantenuto in vita e ravvivato la notte dell’ultimo dell’anno e dell’Epifania. Un grande fuoco all’aperto, quindi, come lo si ritrova nelle tradizioni popolari di molti paesi europei in corrispondenza del giorno più corto dell’anno ma anche in altri periodi.
L’origine della tradizione è certamente pagana, come tanti altri riti e tradizioni che le religioni hanno assorbito e rielaborato, ma qui quello che più interessa è l’aspetto antropologico della fòcara, cioé come è stato rielaborato e vissuto nelle comunità calabresi in generale e in particolare in Decollatura.

La materia prima consisteva principalmente in ceppi di castagno, quasi sempre la parte che rimaneva nel terreno dopo aver tagliato un albero. Si tratta di un intrico di radici in cui rimane molta terra e il colletto del tronco appena accennato. Non si può parlare di materiale di scarto poiché, nei tempi antichi, anche l’apparato radicale degli alberi veniva utilizzato come legna da fuoco, dopo aver scavato il terreno tutto intorno al punto di taglio, che sfiorava il terreno, e, a volte, anche al di sotto. Nessuno si poteva permettere il lusso di lasciare marcire nel terreno qualche quintale di legno in tempi in cui l’unica fonte di combustibile era il legno secco che cadeva dagli alberi dopo un temporale, diritto riconosciuto agli abitanti dei paesi montani sui terreni dei feudatari con il nome legnare a morto, ossia diritto alla raccolta dei rami secchi spontaneamente caduti dagli alberi. C’era poco altro da bruciare: le frasche (fascine di rami secchi), le poche reperibili, servivano per ardere il forno; le stoppie dei lupini occorrevano per le riparazioni annuali del pagliaio; dei tronchi degli alberi, non è neanche il caso di parlarne: chi avrebbe mai tagliato un albero, privandosi di una fonte di cibo? Oltretutto – e ciò sembra inverosimile – il paesaggio dei tempi passati era molto più spoglio di quello di oggi! Nei terreni coltivabili non erano tollerati alberi che, facendo ombra, avrebbero ridotto la produzione del campo e quindi non se ne piantavano, o meglio, c’erano pochi, alti, immensi alberi di pirajina  o di melo, tanto alti che la loro ombra si distribuiva su una grande area e quindi dava poco disturbo al raccolto. Non c’erano luoghi incolti in cui potevano essere trovati arbusti o altro materiale vegetale. Gli alberi, i pochi tollerati lungo gli argini dei fiumi o nel bosco, erano potati fino ad altezze inverosimili durante l’estate per dare da mangiare alle capre. Restavano quindi le radici degli alberi abbattuti dalle intemperie, quelli trasportati dalla corrente dei fiumi, quelli i cui proprietari non avevano vigilato abbastanza…

I ceppi, chiamati zucchi in dialetto decollaturese, dovevano dunque essere raccolti lontano, nei boschi o vicino ai fiumi, e trasportati su un rudimentale carro fino alla piazza della frazione di appartenenza dei volontari. Il lavoro necessario per togliere il ceppo con tutte le radici dalla terra e per portarlo a destinazione avrebbe scoraggiato chiunque. Ed è proprio in questo aspetto che, tentando un’analisi antropologica della fòcara, si possono trovare gli elementi per dare un’interpretazione plausibile sulla sua origine e significato. Il punto di partenza è che le radici e la parte di tronco rimasti sottoterra impediscono la lavorazione e la semina del terreno e inoltre, particolarmente nel caso del castagno, non marciscono che dopo moltissimi anni. La cooperazione di tante persone nell’improbo lavoro di estrazione ed eliminazione delle ceppaie di castagno è da considerarsi un’opera positiva poichè una volta l’anno i boschi, e comunque i terreni in genere, venivano ripuliti da queste ingombranti e moleste presenze. Se poi vogliamo andare ancora più indietro nel tempo, fino al medioevo e poi ancora prima, dobbiamo ricordare una delle tecniche primitive di coltivazione: la cosiddetta cesina.

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