Felice Costanzo

Felice Costanzo

di Giuseppe Musolino

Felice Costanzo è uno dei nipoti di Michele Pane, figlio della sorella Nicolina (1853-1896).  Lo includo in questa sezione, quella destinata agli “Amici” del poeta, poiché il suo rapporto col celebre zio non è solo di carattere familiare ma, ad un certo punto della vita di Felice, si trasforma in un rapporto amicale e quasi tra “colleghi” per l’interesse che il giovane manifesta per la scrittura e la poesia, insomma per quello che era il mestiere dello zio. Tra loro quindi nasce una corrispondenza che unisce temi di argomento personale e familiare a temi culturali. Ma cominciamo dall’inizio.

Felice Costanzo

Felice Costanzo (1894-1986)

La maggior parte delle notizie familiari di Felice Costanzo le possiamo trarre dal suo volume Dalle origini… (ricordi di famiglia) pubblicato da Rubbettino nel 1983, nel quale egli raccoglie dati, informazioni e aneddoti sulla vita dei suoi antenati e sulla sua personale.
Il volumetto inizia con le più antiche notizie relative ai suoi  avi secondo cui i Costanzo della provincia di Catanzaro – in particolare di Nicastro – sarebbero stati originari di Pedivigliano e prima ancora di Cosenza, dove erano giunti provenendo da Napoli. Il più antico personaggio della famiglia che Felice riesce a ricordare è il prozio Don Pasquale Costanzo, fratello del nonno Felice, che era stato per anni parroco a Bella (frazione di Nicastro, ora Lamezia Terme) e solo intorno ai 60 anni d’età giunse ad avere assegnata la parrocchia del suo paese di Adami.
Il nonno Felice, di cui il Nostro era orgoglioso di portare lo stesso nome, morì quando il nipotino aveva solo un anno. Ma nel paese poté ascoltare per molto tempo le lodi per quell’uomo laborioso che dedicava tutte le sue energie alle attività connesse con la gestione dei molti terreni che aveva acquistato con le sue risorse e con l’aiuto del fratello parroco.

Veduta di Censo - Maggio 2012

Veduta di Censo - Maggio 2012

In casa con il nonno Felice viveva una sorella, Grazia, che non avendo sposato era rimasta in casa a coadiuvare la famiglia. In questo periodo la famiglia Costanzo ebbe la sua massima ascesa economica che porterà le generazioni successive a potersi permettere uno dei lussi più rari per l’epoca, e cioè l’accesso all’istruzione.
Dal nonno Felice e dalla moglie Rachele Grandinetti nacquero Rosario (morto giovane), Giovanni e Gabriele. Gli ultimi due furono mandati a Nicastro per frequentare le prime tre classi del Ginnasio.
Assolto il servizio militare, Giovanni aiuta la famiglia nella gestione dell’azienda familiare che, come detto, aveva bisogno di una buona organizzazione date le dimensioni che aveva raggiunto.
Arriva poco dopo il momento di prendere moglie e la scelta cade su una giovane appartenente a una famiglia di buone condizioni economiche: Nicolina Pane, la sorella maggiore di Michele Pane.
Da Giovanni e Nicolina nacquero numerosi figli di cui sopravvissero solo cinque. L’ultimo nato fu Felice Costanzo che vide la luce il 6 aprile 1894. Il destino però lo privò presto della madre che, a poco più di quarant’anni d’età, morì quando il bambino aveva solo un anno e mezzo. Per il piccolo Felice si rese necessario ricorrere a una balia che fu trovata nel suo stesso paese e poi a un’altra originaria di Motta S. Lucia che si trasferì nella casa del bambino. Qui, dopo la morte della madre, si era venuta a creare una grande famiglia di cui facevano parte i cinque figli, il padre Giovanni, il prozio parroco Don Pasquale, la prozia Grazia (“monaca di casa”), la nonna Rachele e un’altra prozia, Innocenza. Felice Costanzo fu tenuto a battesimo dallo zio Michele Pane nel mese di aprile 1894, poco prima della sua partenza per l’America. Di questo legame lo zio avrà sempre memoria in lettere e poesie.

Casa natale di Felice Costanzo in località Censo, ora di altri proprietari.

Casa natale di Felice Costanzo in località Censo, ora di altri proprietari.

Poco distante dalla casa paterna di Felice, viveva la nonna materna Serafina Fiorentino. Dalla nonna Serafina andava più raramente, anche perché le distanze che oggi appaiono irrilevanti un tempo erano percepite come maggiori, soprattutto per le cattive condizioni delle strade. I Costanzo vivevano nella borgata chiamata Censo mentre i Pane avevano la casa nel centro di Adami, vicino la chiesa: la distanza era di circa 500 metri.
Quando i nipoti Costanzo andavano dalla nonna Serafina, lei li accoglieva con amore e dolcezza, di solito nella grande cucina, quella in cui c’era il focolare e “ ‘u cippariellu” in cui da bambino si sedeva il figlio Michele, figlio di cui lei parlava in continuazione insieme agli altri personaggi della sua famiglia, primo fra tutti il fratello filosofo Francesco che ogni tanto si recava in Adami a farle visita e a giocare a “tressette” nella cantina che i Pane gestivano.
La sorella maggiore Grazia fu per il piccolo Felice come una seconda madre. Si prese cura amorevolmente dei fratelli e degli altri familiari che vivevano nella stessa casa. Ma anche per lei era in agguato un triste destino poiché prematuramente morì in seguito alle complicanze del morbillo.
Ad occuparsi dei fratelli più piccoli toccò allora all’altra sorella Innocenza che doveva anche provvedere (insieme ad altre parenti o a persone di servizio) alle altre esigenze della famiglia come quella di preparare da mangiare per i molti lavoranti necessari per la gestione delle proprietà di famiglia e ai quali si dovevano somministrare – secondo la consuetudine – più pasti al giorno (la mattina presto, a metà mattinata, a pranzo, e qualche volta anche la sera).
Nel frattempo Felice e Pasquale completarono gli studi a Nicastro (1911) e Innocenza poté distaccarsi dalla famiglia e sposare Ernesto Paola di Conflenti dove si trasferì. Ma la povera Innocenza non ebbe fortuna perché morì poco dopo, all’età di 31 anni, per le conseguenze di uno sfortunato parto.

Intanto Felice Costanzo aveva continuato gli studi a Nicastro e, successivamente, presso il convitto di Scigliano, in provincia di Cosenza. Il percorso da Adami a Scigliano, ricorda Felice nel citato libro di memorie, era disagevole perché in mancanza di treno — che verrà molti anni dopo — doveva essere fatto sul dorso di asino o addirittura a piedi. Da Scigliano passò a Catanzaro al Liceo-Ginnasio Galluppi e dopo ancora alla Scuola Normale di Lacedonia. Qui nel 1911 conseguì il diploma e l’abilitazione Magistrale dopo tre anni di permanenza nel centro avellinese.
Tornato nel suo paese natale, festeggiato da parenti e amici per il prestigioso risultato conseguito, si diede subito da fare per ottenere un incarico di insegnamento. E questo arrivò presto, il primo di ottobre di quello stesso 1911, presso la scuola elementare di Curinga. Accompagnato dal padre Giovanni e dallo zio farmacista Luigi Pane, Felice raggiunse la sede assegnatagli, ma poco dopo dovette lasciarla perché un altro aspirante aveva promosso un ricorso — fondato —  in quanto egli non aveva ancora compiuto la maggiore età e quindi non poteva essere assunto.

Il primo vero anno di servizio inizierà nel dicembre del 1912 nel comune di Gizzeria dove Felice prenderà casa e abiterà per qualche anno.
Arrivò presto la mobilitazione per la guerra e Felice Costanzo dovette forzatamente vestire la divisa e partire per il fronte. La sua zona di destinazione era sul Lago di Garda e poi nella zona delle operazioni dove prestò servizio nel lavoro d’ufficio negli ospedali militari. Dopo la disfatta di Caporetto vagò per qualche giorno e poi fu destinato ad insegnare nelle zone di guerra.

Felice Costanzo  (con il segno) militare nella I^ Guerra Mondiale

Felice Costanzo (con il segno) militare nella I^ Guerra Mondiale

Felice Costanzo in divisa

Felice Costanzo soldato

Ammalatosi di “spagnola” fu ricoverato nell’ospedale di Udine e successivamente destinato all’ospedale militare di Catanzaro per la convalescenza. Da qui fu destinato a Palermo finché nell’agosto del 1919 ritornò definitivamente al suo paese di Adami.

Dalle fotografie del fronte di guerra che Felice Costanzo conservò come ricordo, si può notare la grande somiglianza dei lineamenti del viso e del portamento che Felice ha con lo zio Michele, specialmente se confrontate con le prime fotografie americane di Michele Pane quando aveva la stessa età di Felice soldato. La somiglianza si conserverà anche negli anni seguenti, tanto da indurre Gabriele Rocca, quando per una grave malattia si era recato a Roma per cure e dove poi morirà, incontrando Felice gli disse: «Tu a Michele tutt’assomigli ‘e facc’e de statura!» (così nella poesia Per il trigesimo di Gabriele Rocca, in “Juri ‘e luntananza”, 1958).

Dal primo ottobre 1919 prese servizio d’insegnante nella scuola elementare di Soveria Mannelli, sede che raggiungeva in bicicletta o a piedi.
In quei primi anni del dopoguerra, nei pomeriggi liberi dal lavoro scolastico, si dedicava a dirigere i lavori di risistemazione della casa paterna e delle proprietà agricole, anche perché stava per conquistare una nuova tappa della sua vita: il matrimonio.
Il 18 agosto 1920 Felice sposa Raffaela Costanzo, sorella di Don Luigi e di Rosarino, amici fra i più sinceri e duraturi di Michele Pane. Dalla coppia nasceranno quattro figli: Innocenza, Achille e le gemelle Grazia e Rachele mentre Felice riesce ad ottenere pian piano l’avvicinamento della sede di servizio prima a Liardi e poi ad Adami.

Famiglia Costanzo nel 1930

Felice Costanzo con la moglie Raffaela e i loro quattro figli. In braccio le neonate gemelle Rachele e Grazia, davanti Innocenza e Achille.

Passano gli anni e Felice pensa che per garantire ai figli migliori opportunità di studio, sarebbe stato utile trasferire tutta la famiglia in una grande città.
Si pensa a Roma dove il cognato Don Luigi avrebbe avuto la possibilità di aiutarli nella sistemazione. E infatti così accadrà, nel 1936, esattamante l’11 febbraio. Dapprima vi si trasferisce il solo Felice raggiunto dopo pochi mesi dal resto della famiglia che si sistemò a Ostia Antica.
Superati, indenne, i rapporti con i gerarchi fascisti che ogni tanto gli si avvicinavano per rimproverargli il suo scarso “attaccamento” al partito — giunsero a quasi ottenerne il licenziamento — la vita nella città di Ostia Antica proseguì tranquillamente, con il suo impegno nel lavoro e i figli che progredivano negli studi.
Tutti gli anni, durante le vacanze estive, la famiglia Costanzo si trasferiva nel natio paese di Adami. L’evento era così sistematico che Felice Costanzo — unico caso noto!— negli anni successivi scriverà nelle prime pagine dei libri pubblicati l’indirizzo “abituale”, cioè quello di Roma (dove andrà a vivere) e quello “estivo (luglio-agosto)” di Adami, inclusi i numeri di telefono.
Nel 1943 la partenza per le vacanze estive avvenne prima del previsto perché, per l’incalzare degli eventi bellici, la chiusura delle scuole fu anticipata e la famiglia partì per Adami già alla metà di giugno. Si pensava a una breve permanenza nella casa natale, per cui furono portati meno bagagli del solito, lasciando tutto nella casa di Ostia, come per una breve assenza. E invece le cose andarono diversamente, poiché la zona di Ostia fu sfollata e nessuno poteva tornare nella propria casa.

Passarono così due anni di angoscia per la situazione bellica che anche in Calabria faceva sentire il suo peso ma, soprattutto, per il destino della casa ostiense abbandonata a se stessa.
Nei seguenti due anni scolastici di forzata permanenza in Calabria, il 1943-44 e 1944-45, Felice Costanzo insegnò nella scuola elementare di Adami, con grande piacere, se non fosse stato per i timori su ciò che forse stava capitando alla sua casa di Ostia.
In quegli stessi anni le figlie Rachele e Grazia, frequentarono il 4° e 5° ginnasio al Galluppi di Catanzaro ospiti, insieme alla madre, del loro zio Don Luigi Costanzo che a Catanzaro era stato nominato Provveditore agli Studi dal Comando degli Alleati, dopo il loro sbarco in Sicilia. Achille invece frequenta il 3° anno al Liceo Fiorentino di Nicastro. Cenza, che aveva già conseguito la licenza liceale, resta in Adami con il padre e la fedelissima domestica Sandrina.

Anche in Adami ci fu qualche apprensione per i pericoli della guerra. Intorno alla zona di Adami-Liardi si trovava una postazione della contraerea tedesca che veniva presa di mira dagli aerei degli Alleati. Durante il giorno, quando gli aerei si facevano minacciosi nel cielo, gli abitanti di Adami lasciavano le loro case e si inoltravano nei vicini boschi, nascondendosi alla vista di eventuali incursori.

Nel maggio del 1945, ottenuti i permessi, Felice Costanzo, trepidante, affrontò il viaggio per Ostia dove avrebbe potuto finalmente conoscere il destino della propria casa.
Con sorpresa e orrore la trovò completamente vuota! Niente mobili e suppellettili ma neanche le finestre, i lavandini, i tubi dell’acqua. La scomparsa di oggetti e ricordi di famiglia colpì nel cuore Felice, poiché i ricordi che si tramandano per mezzo degli oggetti, delle fotografie, delle lettere sono parte della famiglia, come e più degli altri beni, essendo insostituibili. Chissà anche quanti documenti che riguardavano il rapporto con il celebre zio Michele sono andati distrutti in quell’occasione!

Superato il primo momento di shock, si pensò a come rimettere su la casa. Più tardi sarebbe arrivato qualche indennizzo come risarcimento di danno di guerra ma fu tardivo e insufficiente. Per non far perdere un altro anno ai due figli maggiori, Felice Costanzo lasciò Adami per l’inizio del nuovo anno  — scolastico per lui e accademico per i figli —  andando ad abitare presso la cugina Libertà a Roma, mentre la moglie e l’altra figlia rimasero ancora in Calabria.

Dopo pochi giorni, organizzata con mezzi di fortuna una parvenza di abitabilità nella casa di Ostia, Felice e i due figli vi si sistemarono come ci si può sistemare nel periodo che segue una disastrosa guerra, con merci introvabili e, comunque, a carissimo prezzo.

Arrivata l’estate, tutti si ritrovano in Adami da dove pochi mesi dopo l’intera famiglia, ormai riunita, farà ritorno a Ostia.

Fu in questi anni che Felice Costanzo incomincia a mettere mano alla penna per comporre le prime poesie ricevendo consensi e apprezzamenti. La cosa che più lo incoraggiava era che i plausi e gli apprezzamenti gli venivano da persone che di queste cose se ne intendevano: don Luigi Costanzo, Michele Pane, Vittorio Butera.

Passarono così gli anni ’40 e arrivarono tempi migliori: le lauree dei figli, l’acquisto di una macchina (una Fiat 600), l’assidua frequentazione del cognato Don Luigi che era a Roma, e tutto sembrava andare per il verso giusto. Immancabilmente, tuttavia, dovevano arrivare anche dispiaceri e dolori, soprattutto per la morte degli amati congiunti: il fratello Pasquale, lo zio Michele Pane e il cognato don Luigi.

Dedica di Michele Pane su una copia di Garibaldina alla famiglia Costanzo

Dedica di Michele Pane su una copia di Garibaldina ai figli del nipote Felice Costanzo

Gli ultimi due anni di servizio nella scuola di Ostia Felice Costanzo li trascorse in ufficio, avendo conseguito la nomina di Collaboratore Fiduciario con esonero dall’insegnamento. Tra il disbrigo delle pratiche, Felice trovava il tempo di dedicarsi anche a letture e composizione di varie opere che pubblicherà via via con editori di Decollatura, Roma, Nicastro e Soveria Mannelli.
All’età di 65 anni, nel 1959 fu collocato a riposo e successivamente si trasferì a Roma dove aveva comprato una casa nella centrale via S. Evaristo, nei pressi di Città del Vaticano.
I figli cominciano ad intraprendere le professioni legate ai titoli di studio conseguiti: Cenza, laureata in Matematica e Fisica, inizia ad insegnare; Achille, laureato in Ingegneria elettrotecnica affronta gli esami ed entra nell’Istituto Superiore di Telecomunicazioni; Rachele Laureata in Lettere Classiche inizia l’insegnamento; Grazia, conseguito il diploma in Economia Domestica, insegna saltuariamente in alcune scuole di Roma e Fiumicino.

Felice Costanzo con figlie e nipoti

Felice Costanzo con figlie e nipoti

Felice Costanzo con Libertà e Oronzo e figlie, luglio 1973

Felice Costanzo brinda con Libertà, Oronzo e figli - Luglio 1973

Dal 1961 Felice, venduta la casa paterna di Censo, si trasferisce nell’altra casa che aveva ristrutturato nella zona vicino la stazione ferroviaria di Adami (Le Fosse), dotata di un grande giardino in cui trovava posto anche un bel campo di bocce, una delle sue passioni.

Il volumetto “Dalle origini… (ricordi di famiglia)” è stato utilissimo per raccontare le vicende di Felice Costanzo fino all’inizio degli anni ’60. Per la parte successiva mi hanno offerto un valido aiuto le sue poesie (molte riguardano episodi particolari della sua vita) e i ricordi – vividi e dettagliati – della figlia Rachele.

Quello che emerge dalle sue note autobiografiche – ma anche dal resto delle sue opere – è un Felice Costanzo quale uomo serio, onesto, laborioso, attaccato alla vita di cui sapeva apprezzare i più semplici piaceri, senza mirare a grandi ed eclatanti ostentazioni e pretese.

«Una partita a tressette – ricorda Rachele – e a scopone, fuori casa o in famiglia, lo riempiva di gioia. Lo stesso effetto positivo gli faceva il gioco delle bocce nel “campo chi addura de viole e de frascame” di Michele a Pagliaia o nel campetto di casa.»

D’estate, quando in tutti i paesi del circondario si svolgevano le fiere, Felice doveva assolutamente visitarle tutte. Toccava alla figlia Cenza accompagnarlo in macchina, anche se non ne era particolarmente entusiasta, immaginando già le difficoltà che avrebbe incontrato nel destreggiarsi nel caos creato dalla circolazione di buoi, asini, pecore, donne con ceste sul capo, bambini, vecchi disorientati, camion e poi tutte le altre macchine.
Più di tutte, mi racconta Rachele, le pesava andare alla fiera dell’Abbandonata di Soveria, dove lo spazio era particolarmente angusto. Ma non era necessario insistere molto e Cenza prendeva le chiavi della macchina, disposta ancora una volta a sacrificarsi per il padre. E lui era doppiamente “felice”!

La vita nella casa di Adami gli offriva tanti piccoli piaceri, come quello di curare le piantine da frutto alle quali non faceva mancare l’acqua, ottenendone in cambio i frutti (soprattutto pere) che apprezzava molto.
Una delle sue passeggiate preferite lo portava alla fontana vecchia di Adami, sempre munito del suo bicchiere tascabile, pronto a farsi delle salutari bevute. Mai nessuna bevanda fu apprezzata da Felice Costanzo quanto le acque delle sorgenti della sua terra.
L’altro grande piacere di Felice era quello di ospitare altri “bei fiori” che coronavano la sua esistenza e cioè le nipotine Raffaella e Silvia – figlie di Achille – e talvolta Teresa, Lucilla e Mimmo, figli di Grazia.

Felice Costanzo a Villa Sciarra (Roma) con i nipoti Raffaella, Mimmo, Teresa, Lucilla e Silvia. Anno 1973 circa

Felice Costanzo a Villa Sciarra (Roma) con i nipoti Raffaella, Mimmo, Teresa, Lucilla e Silvia. Anno 1973 circa

Nel mese di dicembre del 1972 gli fu conferita la nomina di Socio dell’Accademia Cosentina, come era accaduto sessant’anni prima allo zio Michele Pane. Felice Costanzo accoglie quasi con incredulità la notizia, componendo subito una poesia pubblicata nel 1975 per ringraziare della nomina e per schermirsi dietro la sua tradizionale modestia.

Nel 1974, tra giugno e luglio, trascorse più di un mese di degenza all’ospedale di Catanzaro. Tornato a casa, trascorse un lungo periodo di convalescenza in cui, rincuorato dai familiari, pian piano riprese a camminare aiutandosi con due bastoni. Dovette però dire addio alla bicicletta, alle bocce e ai suoi consueti “70 giri” intorno casa.

Pochi anni dopo, un grande dolore è in agguato. Il 17 ottobre 1978 muore la sua adorata moglie Raffaela, Rafeluzza come vezzosamente la chiamava. È inutile aggiungere che, a questo punto, la vita di Felice Costanzo subisce una svolta fondamentale. Arriva la solitudine, arrivano le lunghe giornate trascorse a pensare e a rimuginare, con il pensiero che vagava, tra ricordi dolci e amarezze.
Il maggiore conforto fu, in questo periodo, il continuare a scrivere versi e a ripercorrere col pensiero la sua vita arrivando sempre più ad apprezzare le piccole cose, le piccole gioie della vita.
Grande conforto gli davano le visite dei vecchi amici sia a Roma sia nella casa di Adami durante il periodo estivo, come quelle, fra gli altri, di Nicola Sinopoli, Peppino Cerra, Peppino Scalzo e Giuseppe Mascaro di Serrastetta.

Intanto si avvicina l’epilogo. Agli inizi del giugno 1986, Felice Costanzo inizia ad avvertire una certa debolezza.
È il suo unico rene che comincia a cedere, avendo avuto asportato l’altro molti anni prima. La situazione precipita, ma Felice, pur rendendosi conto della gravità della situazione, continua a sperare di poter tornare a vedere ancora una volta la sua casa di Adami.
Poi «È finita! – sussurra infine all’orecchio della figlia Rachele ­– Vicino a me c’è mio fratello Pasquale, lo vedi? È qua!»

La sera del 13 giugno 1986, nella sua casa di Roma, muore serenamente dopo aver recitato per intero «Davanti S. Guido» di Carducci, una delle sue poesie preferite.

Dopo il funerale a Roma, la salma fu trasferita in Adami dove, nella chiesa gremita, il prof. Peppino Scalzo pronunciò un caloroso elogio funebre. E poi, quando il corteo, mestamente avviato lungo la strada che conduce al cimitero di Decollatura, passò sotto la grande quercia della Linza, lo stesso Peppino Scalzo protese una mano verso l’alto e, afferrato un ramo dell’albero, senza staccarlo, lo avvicinò alla bara in cui giaceva Felice, in segno di saluto, proprio come lui aveva immaginato nella poesia dedicata alla quercia.
Liberato dalla morsa, il ramo ritornò al suo posto, a guardare dall’alto Felice che si avviava lungo l’ultimo amaro tratto della sua vita terrena.

Lettera dell'aprile 1953 di Michele Pane a Felice Costanzo

Lettera dell'aprile 1953 di Michele Pane a Felice Costanzo

 

Nei confronti dello zio Michele Pane, Felice ebbe naturalmente stima e ammirazione. Il suo contributo fu fondamentale per portare a termine la pubblicazione della raccolta Musa Silvestre avvenuta a Roma presso l’editore Vittorio Bonacci (di origini decollaturesi) nel 1967. A Felice Costanzo riuscì in quell’occasione di realizzare il progetto editoriale intrapreso dieci anni prima da Gabriele Rocca e Don Luigi Costanzo su sollecitazione di Libertà. Desideravano pubblicare una nuova raccolta antologica dei versi di Michele Pane ma per problemi vari con gli editori e la loro improvvisa scomparsa non si era potuto fino a quel punto realizzazione l’impresa. La produzione letteraria di Felice Costanzo consiste in sedici pubblicazioni, sedici garbati volumetti tutti in formato tascabile, adatti a contenere quasi sempre in un’unica pagina, un’intera poesia, comodi da tenere in mano. I temi sono versi d’occasione (brindisi, auguri per ricorrenze e celebrazioni, ecc.) ma anche ricordi della propria fanciullezza, del paese natale Adami, e anche poesie che sarebbero state adatte a un libro di lettura per le scuole elementari (… quelli di una volta) perché di tono pedagogico e affettuoso, come doveva venirgli naturale per la sua lunga professione di insegnante. E, proprio a questo proposito, si distingue tra i suddetti volumi, quello intitolato «Grammatichetta italiana in versi». L’editore della prima edizione del 1949, Vittorio Bonacci, queste parole: «Questa grammatichetta […] è nata nella scuola e per la scuola, in intima collaborazione con gli stessi alunni i quali – con la festosa accoglienza, con la prontezza del loro esperimento mnemonico, con i loro rinnovati e felici richiami in sede di correzione o di analisi – sono stati gli stimolatori più efficaci del pensoso maestro che ha cercato per loro – unicamente per loro – formule facili, spesso vivaci e scherzose, atte a richiamare regole e norme di solito mal digeribili e astratte». E infatti il maestro Felice si ingegna nel trovare versi per esprimere con puntualità regole e norme su articoli, nomi, verbi, e tutto quello che costituisce il tormento degli scolari:

MODI E TEMPI DEL VERBO

Quattro son modi finiti,
chè l’azione fan precisa;
altri tre gl’indefiniti,
che la lasciano indecisa.

Prima c’è l’indicativo
che ti dona la certezza,
e poi viene il congiuntivo,
che t’esprime dubbiezza.

Dopo il se col CONGIUNTIVO,
MODO C’È condizionale;
SE tuo padre FOSSE vivo,
non STARESTI così male.
………..

e così via, per tutti i tempi del verbo.

A questa prima opera seguì «Juri ‘e luntananza. (Viersi ‘n calavrise)» pubblicata dall’editore Vittorio Bonacci a Roma nel 1958, in cui la presenza dell’impronta dello zio Michele Pane è evidente, a partire dal quel sottotitolo Viersi ‘n calavrise che richiama quello usato da Pane nel 1911 Stroffe ‘ncalavrise. In questo libro è contenuta una delle più famose poesie di Felice Costanzo:

‘A CERZA D’A  LINZA

O cerza, chi arroccata e puterusa
spidi lu vientu fort’’e tramuntana,
‘sta mente te ricorda ed amurusa
se vorge sempr’a ttie chi si’ luntana!

Te guarda cum’’u faru de sarvizza
‘u marinaru adocchia d’intru l’unde,
quandu lu vientu ‘na timpest’attizza
e lle pagure sue se fanu funde.

O vecchia cerza, tu chi fai vidìre
‘ fermu truncu e cime a zumpunìa
allarghi, cumu vrazza pp’accoglire,
accuogli puru ‘sta parola mia!

‘U viernu tu te spùogli pp’alluttare
cchjù forzicuta ccu’ lli brutti vienti;
‘mprimavera pue ‘ncigni a t’adornare,
cà lu bisuognu nuostru già tu sienti!

O cerza rande, sutta ‘ssa friscura
ripara l’agelluzzi ccu’ lli nidi
e glianda duna ed aria frisca e pura:
‘n’âtri mill’anni statti dduve sidi!

L’ùomini moni sempre se faû guerra
ppe’ sse tirare l’anim’e llu core;
tu, chi si’ arradicata forte ‘nterra,
surtantu bene mandi sempre fore!

A ‘ss’umbra tua cuntientu, ‘e quatrariellu,
fùozi scolaru ( e cumu cce tornerra!);
a ‘ss’umbra pue cce fùozi giuveniellu,
de maestru (furnut’’a prima guerra).

E tridici anni cce passai cuntientu,
faciendu, cumu pùotti, ‘u mio duvere;
pue me portàu luntanu ‘n’autru vientu,
ma piensu sempr’a chille primavere!

A ss’umbra pue cce tuornu vecchiariellu
ppe’ te dire ‘st’amara storiella:
– «Tu ere vecchia ed io ‘nu quatrariellu;
mo’ sugnu viecchiu e tu… si’ fort’e bella!» –

A ‘ssu tiermin’e Linza pue te lassu
e me ‘ncaminu ppe’… ‘na brutta via
e quandu ‘ntieri, all’urtimu, te passu,
‘na cima chjca supr’’a vara mia!

'A cerza d''a Linza (La quercia della Linza), Adami

'A cerza d''a Linza (La quercia della Linza), Adami. A sinistra si scorge l'ottocentesco ex edificio delle scuole elementari

L’atmosfera della poesia è quella nostalgica, tipica di molta produzione dello zio Michele. I luoghi di Adami, limitati nel numero ma infiniti nelle combinazioni che riescono a produrre, sono però diversi perché diversa è stata la “lettura del territorio” dei due uomini: separati temporalmente di una generazione e nello spazio dall’infinità oceanica. Felice, in questa poesia, ci parla di una maestosa pianta di quercia che cresceva (e tuttora continua a godere di buona salute) al confine di un terreno detto ’a  linza nelle immediate vicinanze dell’antico edificio della scuola elementare di Adami. La quercia lo ha visto bambino quando andava a scuola, adolescente a sospirare, forse, alla sua ombra, da adulto a insegnare per molti anni in quella stessa scuola. Ora Felice le dice di aspettarlo per l’ultimo, fatale incontro. Quando lui, nella bara, le passerà sotto perché è da lì che passa la strada che dalla chiesa di Adami porta al cimitero, le chiede solo un piccolo segno, in cambio della stima che lui ha avuto per lei: un inchino fatto con un ramo, un ultimo saluto!

E, in qualche modo, così accadrà!

PUBBLICAZIONI DI FELICE COSTANZO

N.

Titolo

Anno

 1

Grammatichetta italiana in versi, Vittorio Bonacci Editore, Roma

1949

 2

 Per ricordare, Gastaldi Editore, Milano

Gennaio 1958

 3

 Juri ‘e luntananza (Viersi ‘n calavrise), Vittorio Bonacci Editore, Roma

Maggio 1958

 4

 Piccole cose (poesiole per piccoli), Tip. Numistrana – L. Nucci, Lamezia     Terme

1967

 5

 Altri Ricordi…, Tip. Numistrana – L. Nucci, Lamezia Terme

1967

 6

 Juri tardivi (viersi ‘n calavrise), Tip. Numistrana – L. Nucci, Lamezia  Terme

1967

 7

 Urtimi Juri (viersi ‘n calavrise), Tip. Numistrana – L. Nucci, Lamezia Terme

1971

 8

 Ultimi Ricordi (poesie in lingua italiana), Tip. Numistrana – L. Nucci, Lamezia Terme

1971

 9

 Urtimi Juri (aggiunte), Rubbettino, Soveria M.lli

1975

 10

 Ultimi Ricordi (aggiunte), Rubbettino, Soveria M.lli

1975

 11

 Ultimi Ricordi (altre aggiunte), Rubbettino, Soveria M.lli

1978

 12

 Grammatichetta italiana in versi, Tip. Olimpica, Roma (ristampa con aggiunte)

1979

 13

 Ultimissimi ricordi e juri, Grafica Reventino, Decollatura

1979

 14

…Juri. Estratto da ULTIMISSIMI RICORDI E JURI, Grafica Reventino, Decollatura,

1979 (?)

 15

 Ancora ricordi…, Rubbettino, Soveria M.lli,

1982

 16

 Dalle origini… (ricordi di famiglia), Rubbettino, Soveria M.lli

1983

Qui di seguito presento le copertine di tutte le pubblicazioni di Felice Costanzo e, per ciascuna di esse, anche alcune pagine:

Ringrazio vivamente le figlie Rachele e Grazia Costanzo per le informazioni e il materiale fornito.

Copyright © 2012 Giuseppe Musolino

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Tora

Tora è una delle più belle, conosciute e apprezzate poesie di Michele Pane. La bellezza è data dalla delicatezza dei sentimenti e dalle parole scelte per esprimerli. La descrizione della figura di Tora poi è una delle più riuscite del poeta.
Tora è una vecchietta che abitava nei pressi della casa dei Pane ed è certamente una persona realmente esistita che probabilmente aiutava la famiglia del poeta nei lavori di casa, se non anche in quelli dell’orto. Non è necessariamente stata una loro persona di servizio, come si potrebbe dedurre dal fatto che portava qualche fascina di legna quando andava nella casa, perché nei rapporti che si instaurano tra le persone di un piccolo centro, non ci sono soltanto quelli legati ai “contratti” economici di subordinazione ma, per fortuna, anche quelli “sociali” e affettivi. Tora quindi poteva avere mille altre ragioni per essere affezionata alla famiglia Pane e recarvisi quotidianamente per visitarla e condividere il freddo e i problemi o un po’ di calore generato dalla fascina di frasche che essa stessa portava. E poi l’uovo, il regalo che saltuariamente le sue galline le concedevano e che lei portava in una casa che le uova avrebbe potuto procurarsele altrimenti, allevando le proprie galline, ma che lei portava in segno di amicizia. E allora perchè pensare, come quasi tutti hanno fatto, che Tora fosse una specie di domestica – niente di strano, in ogni caso – e non semplicemente una persona legata da affetto e amicizia a Serafina e ai suoi figli. Una persona che, forse perché senza famiglia, aveva desiderio di stare insieme agli altri, a persone con le quali condividere quel poco che aveva. E sicuramente la generosità non sarà stata solo in una direzione, forse anche lei avrà ricevuto qualcosa di cui aveva bisogno, prima di tutto l’affetto e, poi, una poesia che l’ha resa immortale! Questo tipo di rapporto, incomprensibile a qualcuno, era invece piuttosto diffuso un tempo, e si è mantenuto in molti casi ancora oggi: persone che si legano a famiglie con le quali instaurano un rapporto di amicizia, di vicinato, di frequentazione disinteressata. Ecco, forse questo potrebbe essere essere il quadro più corretto in cui collocare la figura di Tora.

Vecchia con un rosario - Paul Cézanne

La poesia fu pubblicata in Italia per la prima volta nella raccolta Accuordi. Stroffe ‘ncalavrise stampata a Napoli presso l’editore Casella nel 1911. Non è detto che sia stata quella la prima pubblicazione della poesia, poiché Michele Pane aveva pubblicato già qualcosa su La Follia di New York e altri giornali americani. Non avendo la possibilità di verificarlo (e come si potrebbe?) mi limito a segnalarla come ipotesi, che però non modifica il fatto che sia il 1911 l’anno in cui si considera come pubblicata la poesia Tora .

La poesia è dedicata « Alla mia dolce mamma ed alle care mie sorelle lontane »

TORA. TORA.
Quandu lu viernu cc’era la vuòra
fridda, o jazzava,
chilla bon’anima cara de Tora
pped’ogni jurnu ne visitava.

Venìadi priestu la vecchiarella
affezionata,
e ne portavadi ‘na sarcinella
ppe’ ni ‘nde fare nue ‘na vampata.

E certe vote me dicìa: Caru,
te’ l’ovicelle;
sû puocu, fìgliuma, cà mo’ scacarû
(le vijad’ecate!) le gallinelle.

Quando d’inverno c’era la bora
fredda, o nevicava,
quella buon’anima cara di Tora
ogni giorno ci visitava.

Veniva presto la vecchiarella
affezionata,
e ci portava una fascina
per farcene una vampata.

E qualche volta mi diceva: Caro,
eccoti le uova;
son poche, figlio mio, perché ora sono isterilite
(sian maledette!) le gallinelle.

 

Su queste prime strofe si sofferma particolarmente Luigi Costanzo, l’amico prete e uomo di cultura di Michele Pane, nella sua Della poesia di Michele Pane del 1953, pubblicata come omaggio all’amico appena scomparso. Per lui Tora «è poesia foggiata con autentica purezza greca. Il cuore della buona vecchietta che, d’inverno, sfidando la tramontana o la neve, veniva portando ” na sarcinella”, una manata di rametti secchi, “ppe’ ni ‘nde fare nue ‘na vampata” e portava anche le uova fresche che presentava con amabile garbo, scusandosi della loro pochezza e imprecando alle “gallinelle” che col freddo isteriliscono, non poteva essere meglio dipinto: cuore “tennaru – cumu ‘nu friscu gigliu d’aprile”».
Bellissime le parole scelte per descrivere l’arrivo in casa di Tora e le cose che portava in dono: le poche uova che le sue galline ancora le donavano e un po’ di legna per scaldarsi Ma è un riscaldamento temporaneo, una “vampata”, quella sola che è in grado di offrire una “sarcinella”, un piccolo fascio di rametti secchi, rimediati chissà come. Forse rametti secchi staccati da un basso albero o raccolti per terra, staccati dal vento gelido dai rami più alti, oppure qualche vecchio tralcio di vite, conservato dall’anno precedente, in grado solo di offrire un effimero riscaldamento; insomma un fuoco di paglia!

E poi le uova, anzi “ovicelle” che don Luigino dice giustamente  essere termine intraducibile: e come tradurlo? gli ovetti ? No!, oggi significherebbe un’altra cosa! E’ un diminutivo giustificato dall’interlocutore che è un bambino (è a lui che Tora dona le uova) e dall’affezione e la cura con cui sono portati per il loro intrinseco valore nutritivo e simbolico. E poi ci sono quelle povere galline, morte di freddo, anch’esse, e senza cibo. E sì perché le galline, un tempo, non venivano certo tenute dentro un pollaio recintato e nutrite con cereali! Per loro, neanche gli avanzi di cucina, semplicemente perché non c’erano avanzi di cucina e poi il maiale vi avrebbe avuto la precedenza: no, le galline dovevano uscire dal loro ammasunaru e andarsene in giro a procurarsi il loro cibo. Tutte le cartoline e fotografie scattate nei paesi e anche nei centri più grossi come Nicastro, almeno nelle vie più popolari, fino a dopo gli anni sessanta, vedono sempre presente qualche gallina che liberamente razzola per le strade alla ricerca di qualcosa da mangiare. E per distinguere le proprie da quelle dei vicini, le donne usavano legare un nastro di stoffa colorata ad un’ala come contrassegno ben visibile ed evitare contese di proprietà con le vicine. Con l’arrivo dell’inverno la disponibilità di cibo diminuisce drasticamente; non c’è più erba o altro da rimediare per le strade e comunque la neve toglieva ogni speranza. Per questo motivo d’inverno le galline sospendono la deposizione delle uova, non isteriliscono definitivamente, ma “scacanu”, diventano improduttive temporaneamente e reversibilmente. “Scacare” significa proprio fare cilecca, sbagliare colpo – anche nel gioco – ed è per questo che l’ultimo nato di una nidiata (di pulcini, di uccelli o anche di cagnolini), viene detto ” scacaturu “, destinato a soccombere sopraffatto dalla vigoria dei fratelli che sistematicamente e inesorabilmente si accaparrano le risorse alimentari disponibili.
L’imprecazione ” le vijad’ecate “, che don Luigi traduce con “siano maledette”, è un’espressione non così malevola come la traduzione letterale sembrerebbe suggerire. La parola ecate trae origine dall’identico nome Ecate, dea della morte o, meglio, la dea che è capace di mettere in comunicazione il mondo dei vivi con quello dei morti. Il significato, quindi, di ” le vijad’ecate ” può essere correttamente inteso come “vadano all’inferno”.

Luigi Costanzo così introduce il commento ai successivi versi: «Vien, dopo, il ritratto fisico col ricordo della sfiorita bellezza; ora, eccola, curva, disseccata, rugosa: tuttavia piena di nativa dolcezza»:

Tora passava forsi ccu’ll’anni
la novantina,
ma nun sapíadi cchi ssû malanni,
mai avía provatu ‘na medicina.

‘Icica fòdi de ‘sti cuntuorni
la cchiù pulita
alli sui tiempi: (vòlanu i juorni
bielli d’ ‘a nostra povara vita!)

Er’arriddutta ‘na croccarella
moni ‘ntostata;
restàte l’eranu l’ossa e lla pella
e avìa lla facce tutt’arrappata.

Tora passava forse con gli anni
la novantina,
ma non sapeva cosa sono i malanni,
mai aveva preso una medicina.

Si dice che fu di questi dintorni
la più bella
ai suoi tempi (volano i giorni
belli della nostra povera vita!)

Era ridotta curva
ora, indurita;
restate le erano le ossa e la pelle
e aveva il viso tutto rugoso.

Tora era vecchia, sì!, rugosa, anche!, ma che splendida figura: «quando parlava, che incanto! Loquacità festosa, cordiale, illuminata da viso materno. Soavità sorridente e vezzosa anche nei frequenti diminutivi intraducibili: “sarcinella” “ovicelle” “gallinelle” “friddiciellu” “parachiellu” “missicella” “vecchiarella”. […] Questa celebrazione, semplice ed alta, spira tale senso di simpatia e di rimpianto che ci appare come una luminosa figurazione simbolica della sempreviva e patriarcale virtù del popolo più umile e più sano».

‘Mperò tenìadi illa lu core
sempre gentile;
‘nu core tènnaru tenìadi ancore
cumu ‘nu friscu gigliu d’aprile.

Pàrca la sientu mo’: – Bontrovàti!
Vue cchi facìti?
Vue cumu stati? Vue cumu stati?
‘Stu friddiciellu nu’llu sentìti?

Nue rispundíamu: Bonavenuta!
lestu, allumàmu:
pperchídi, o Tora, te sî perduta?
mo’ ven’assèttate, ca ne scarfàmu.

E tuttavia lei aveva il cuore
sempre gentile;
un cuore tenero aveva ancora
come un fresco giglio d’aprile.

Mi par di sentirla ora: -Bentrovati!
Voi cosa fate?
Voi come state? Voi come state?
Questo freddicello non lo sentite?

Noi rispondevamo: Benvenuta!
presto, il fuoco accendiamo:
perchè, o Tora, da molto non sei venuta?
ora vieni e siediti, che ci riscaldiamo.

Arriva Tora che forse non si vede in quella casa da molto tempo, accolta dalle parole che, allora come ora, ne sottolineano l’assenza ingigantita dal rimpianto di non aver goduto della sua presenza: ” te si perduta?”, “ti eri smarrita?” E subito si accende il fuoco, per festeggiare, dal momento che prima era spento, per la tristezza che aleggiava nella casa e per la cronica mancanza di combustibile, avendo riservato la poca legna all’indispensabile cottura del cibo e non a riscaldare i corpi dell’infreddolita famiglia, come sarebbe stato necessario. Se non si comprende questa atavica mancanza di calore, questa fame mai saziata del calore che ristora nelle tremende giornate invernali, non si comprende il significato che ha assunto col tempo l’immagine della famiglia riunita intorno al focolare al quale Michele Pane ha dedicato molti versi.
Acceso dunque il fuoco, l’atmosfera si scioglie, si comincia a parlare in un clima più allegro:

E llà, sedut’allu vancariellu
d’ ‘u focularu,
pue me dicìadi: – Figliuma biellu,
ti cce fai prievite?

fígliuma caru,fattícce prievite, cà tu cce mieri
pperchì sì biellu;
nu’ stare a sèntere ss’àutri livrieri,
tu t’hai de fare ‘nu parachiellu —

Puru me dici ‘na missicella
quandu pue muoru;
rifríschi l’anima d’ ‘a vecchiarella
ch’è ‘m purgatoriu, duce ristuaru! –

– Quandu te minti la suppellizza
arrigamata,
pue piensi a Tora, noni bellizza?
la vecchiarella tandu è orvicata! –

E là, seduta sul panchettino
del focolare,
poi mi diceva: – Figlio mio bello,
ci diventi prete?

figlio mio caro, fattici prete, che ben ci figuri
perché sei carino;
non dare ascolto a quegli altri fannulloni,
tu devi diventare un pretino —

Pure mi potrai dire una messa
quando poi morirò;
rinfrescherai l’anima della vecchietta
che è in purgatorio, dolce ristoro! –

– Quando indosserai la tonaca
ricamata,
poi penserai a Tora, non è vero bello mio?
la vecchietta allora sarà seppellita! –

Tora vede già Michele Pane vestito con la tonaca del prete, o almeno è questo che gli augura e si augura. Immaginare un futuro da prete per un giovane era un buon augurio e un complimento. Si sarebbe trattato di avere un prestigio personale, una posizione di riguardo e anche, diciamolo pure, una posizione economica sicura. Nella famiglia di Michele Pane c’erano stati già due zii paterni preti, Michele e Antonio, che Tora, data la sua età, aveva sicuramente conosciuto. Non sarebbe stato poi molto inverosimile anche per il giovane Michele abbracciare la stessa carriera, e Tora quindi lanciava un auspicio che in altre condizioni avrebbe avuto ottime probabilità di verificarsi. In più Tora invita Michele a non dare troppo ascolto agli altri giovani perditempo (cani livrieri , cioè come i cani levrieri, che corrono velocemente ma  non sono utili all’uomo perchè non lavorano come invece fanno i cani da pastore, da guardia o da caccia), i giovani con cui Michele passava le sue giornate nel paese.

Ma il giovane Michele vuole cambiare argomento: non gradisce il discorso sul suo futuro da prete e nemmeno quello sulla morte di Tora:

 

No, parra d’àutru, oi Tora mia,
a mie perduna;
lassa li prieviti alla sacristia,
‘mpàrame, ‘mpàrame tu ‘na canzuna;

Cà pue la cantu io a ‘na quatrara
ccu’ lla catarra,
quandu me fazzu ‘rande: m’è cara
cchiù ‘na furracchia, ca la zimarra.

E ‘un de parrare, nun de parrare
cchiù dde morire,
cà si tu muori cum’àmu ‘e fare?
le rumanzelle chi n’ ‘e sa dire?

Io le dicíadi, ed illa ‘ntantu
– ccu’ pizzarrisu –
me rispundìadi: – Te vija santu,
‘nu santariellu d’ ‘u Paradisu! –

No, parla d’altro, o Tora mia,
perdonami;
lascia i preti nella sacrestia,
insegnami, insegnami tu una canzone;

Che poi la canterò io a una ragazza
con la chitarra,
quando sarò fatto grande: mi è cara
più una giovinetta, che la tonaca da prete.

E non parlare, non ne parlare
più di morire,
che se tu muori come faremo?
chi le romanze ci saprà dire?

Io le dicevo, e lei intanto
– con un sorrisetto –
mi rispondeva: – Che tu sia santo,
un piccolo santo del Paradiso! –

Tora raccontava favole, rumanze, racconti di fatti, personaggi e luoghi intrisi di miti e leggende universali: tesori, fate… :

E me cuntavadi tante passate
de li briganti:
– A Riventinu cce sû le fate…
– diciadi sempre – ‘nd’anu brillanti!-

Ed appoggianduse pue la cunocchia
supra lu sinu,
dicíadi: – Puru cc’èdi ‘na jocca
ch’àdi de uoru ‘nu pulicinu

e gira sempre dintra li faghi,
dduv’è orvicatu
lu cchiù putente riccu dei maghi
ccu’ lli trisuori; cc’è ‘nu ligatu

ca s’unu ‘a jocca, o lu pulicinu,
pòdi mu ‘ncappa,
chillu trisuaru ch’è a Riventinu,
resta pue ad illu; ma chi l’acchiappa!

…………………………………………….

E mi raccontava tante avventure
dei briganti:
– Sul Reventino ci son le fate…
– diceva sempre – ne hanno brillanti!-

Ed appoggiando poi la conocchia
sopra il suo grembo,
diceva: – C’è persino una chioccia
che ha d’oro un pulcino

e si aggira sempre in mezzo ai faggi,
dov’è sepolto
il più potente e ricco dei maghi
con i tesori; c’è una promessa

che se qualcuno la chioccia, o il pulcino,
riesce a scovare,
quel tesoro che è sul Reventino,
diventa suo; ma chi ci riesce!

…………………………………………….

Si interrompe qui, con una linea tratteggiata, il dolce ricordo di Tora viva, della bellezza della sua persona e della materna tenerezza con cui parlava con il Michele Pane ragazzo. Se si fosse trattato di un film e non di una poesia avremmo visto inquadrato il Michele Pane adulto svegliarsi improvvisamente e tristemente dal torpore trasognato in cui l’aveva immerso il ricordo dei tempi andati. Bei tempi per la presenza di Tora, per la sua giovinezza e, naturalmente, per la sua mamma:

O Tora, o Tora, requimmetèrna
mo’ chi sì morta!
pperchì nun tuorni cchiù quandu ‘mberna?
ti l’hai scordata la nostra porta?

Pperchì nun vieni allu focularu
cumu solìe?
Nue, ad ogni ‘mposta de lu rusaru
chi dice Mamma, pensamu a tie.

E Mamma, Mamma mia bella, dice
ch’ere ‘na santa;
e sempre sempre te benedice
si te ventùma, sempre t’avanta.

Ma tu nun sienti cchiù, cara Tora,
nun sienti ‘u vantu;
nun tuorni quandu mina lla vuòra
e duormi ‘m pace ‘ntr’ ‘u campusantu!

O Tora, o Tora, requiem aeternam
ora che sei morta!
perché non torni più quando è inverno?
ti sei scordata della nostra porta?

Perché non vieni al focolare
come solevi?
Noi, ad ogni mistero del rosario
che dice Mamma, pensiamo a te.

E Mamma, Mamma mia bella, dice
che eri una santa;
e sempre ti benedice
se ti nomina, sempre ti vanta.

Ma tu non senti più, cara Tora,
non senti il vanto;
non torni più quando soffia la bora
e dormi in pace nel camposanto!

Tora non c’è più. E’ inutile ogni sua invocazione fatta durante la recita del Rosario guidata dalla madre Serafina e in tutti i momenti in cui ce n’era l’occasione. Tora ora riposa, per sempre, nel camposanto.
Nella penultima strofa, quando parla della mamma, alla fine del primo verso c’è una nota: « Ahimè, non più! » che si riferisce al fatto che al momento della pubblicazione (1911) la mamma non era più in vita, essendo morta nel 1907.
La nota può aiutare a datare la composizione della poesia ai primi anni del 1900; forse si potrebbe azzardarne la datazione posteriormente al 1905-6 perché Tora non fu inclusa in Viole e ortiche   del 1906 che pure contiene un assortimento di tante poesie ove avrebbe potuto trovare posto una composizione così bella.

In seguito Tora fu inclusa nelle raccolte Musa Silvestre del 1930 e del 1967, senza la dedica e la nota e con solo qualche vocale modificata.

Casa di Tora

Casa di Tora (a sinistra) e casa di Michele Pane (a destra)

 

Targa con la poesia Tora

Targa con la poesia Tora affissa su quella che fu la sua casa, a cura del Parco Letterario-Storico-Paesaggistico di Adami

COPYRIGHT © 2012 Giuseppe Musolino

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L’incredibile storia di una copia di “Garibaldina”

A volte le cose più incredibili accadono veramente! Una di queste è il percorso durato più di sessant’anni compiuto da una copia della Garibaldina di Michele Pane (vedi l’articolo in “Opere pubblicate”) da Chicago in Adami, poi forse a Firenze, in Emilia Romagna e infine in Adami. Finalmente è tornata “a casa”!

Di cosa si sta parlando? Procediamo con ordine.
Nel 1949, uscita finalmente dalle rotative della casa editrice ILEB di New york, vede la luce l’opera Garibaldina di Michele Pane il quale, naturalmente, appena avutane qualche copia (la cosa fu alquanto travagliata, come si racconta in Michele Pane. La vita), le inviò ad amici e parenti in Italia. Una di queste copie, la n. 726, fu spedita a Giuseppe Adamo, Pepè, figlio di Simone a sua volta figlio di Marianna Pane, sorella del poeta. Pepè qindi era nipote di Michele il quale lo aveva conosciuto e anche frequentato durante la sua lunga permanenza in Adami nel 1938 e 1939.

Garibaldina con dedica al nipote Pepè Adamo

Garibaldina con dedica al nipote Pepè Adamo

Simone Adamo nel frattempo si era trasferito con tutta la famiglia a Firenze, e questo spiega il “tòsco cittadino” usato da Michele Pane nella dedica. Non sarà superfluo qui ricordare che in dialetto decollaturese tòsco significa anche “bello” ed è per il doppio significato che viene usato in questi versi.

Simone Adamo

Simone Adamo

La copia di Garibaldina, quindi, prende la via della Toscana al seguito della famiglia. Negli anni successivi, alla morte di Simone, Giuseppe Pepè Adamo si trasferisce a sua volta e si perdono le tracce del famoso libretto, forse smarrito durante qualche trasloco. Nessuno lo cerca più.

Passano gli anni, anzi passano molti anni. Nel 2009, in Adami, si costituisce il Parco Letterario-Storico-Paesaggistico con l’intento di valorizzare e salvaguardare il grande patrimonio naturalistico e culturale del territorio. Sotto la guida del Presidente arch. Luigi Adamo i soci raccolgono materiale e testimonianze, svolgono attività varie finchè sorge l’esigenza di disporre di una sede fissa che possa anche svolgere le funzioni di un embrionale museo della memoria. Dopo vari contatti, i discendenti della famiglia Adamo, cioè della sorella di Michele Pane Marianna e il marito Giuseppe Adamo, proprietari della casa che per molti anni ospitò l’uffico postale di Adami (all’epoca il servizio postale veniva concesso in appalto per cui l’aggiudicatario lo trasferiva nella propria abitazione), hanno deciso di concederlo in uso temporaneo al Parco Letterario. La sede viene pulita e sistemata dai volontari dell’associazione e il giorno 18 dicembre 2011 viene inaugurata (vedi articolo dedicato).

Nel frattempo Saverio Bonacci, componente del direttivo del Parco Letterario, collezionista ed esperto frequentatore della rete internet, scopre che nel sito di una libreria online di libri usati è stata posta in vendita una copia della Garbaldina di Michele Pane. Egli ne possiede già una copia per la sua collezione personale ma, pensa, ne potrebbe servire un’altra per ingrossare la collezione di opere di cui il Parco Letterario vuole dotare la propria esposizione. Si affretta quindi a fare un’offerta per l’asta su eBay e si aggiudica l’oggetto. La libreria che lo vende si trova a Ravenna, e nulla lascia intravedere un collegamento con la casa di Decollatura.

Ricevuta eBay

Ricevuta eBay

Quando Saverio riceve il pacchetto rimane piacevolmente sorpreso dalla presenza della dedica autografa che impreziosisce il volume ma ancora di più rimane sbalordito quando, portata la copia per mostrarla agli altri amici del Parco, non si scopre che il Pepè della dedica era proprio colui che abitava in quella casa che era destinata ad accogliere quella copia di Garibaldina!
Dopo più di sessanta anni la copia ha raggiunto l’indirizzo a cui era stata destinata. Chissà per quali misteriose vie quella copia era andata dispersa, e chissà perché era finita in quel negozio. Che probabilità avrebbe avuto una copia di piccolo libretto in una scatola di un rivenditore di libri usati della provincia di Ravenna di essere visto e riconosciuto da una persona che aveva notizia di Michele Pane? E che probabilità ci sarebbe stata che questa persona, se anche fosse esistita, avrebbe portato il libro nella casa che gli era propria? Nessuna possibilità! Eppure tutto ciò è veramente accaduto. La copia è adesso di proprietà del Parco Letterario-Storico-Paesaggisitico di Adami. Meraviglie di Internet!

Giuseppe Musolino

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Il Presepe di Adami

Il Presepe di Adami

Nell’ambito delle attività per il periodo natalizio, il Parco Letterario-Storico-Paesaggistico di Adami ha allestito un presepe nelle viuzze del centro storico del paese di Michele Pane.
La caratteristica di questo particolare Presepe è che i suoi personaggi, a grandezza naturale, sono dei manichini abilmente costruiti da Ennio Adamo, componente della struttura direttiva del Parco, con materiali di varia natura, soprattutto legno e polistirolo. I personaggi sono collocati in case, magazzini e stalle ormai chiusi da anni ma che per una volta sono stati riaperti e hanno rivisto la presenza degli uomini.

Quelle che seguono sono alcune fotografie prese nel giorno di Natale.

Presepe Adami 2011

Presepe Adami 2011

 

La cantina

La cantina

 

La cantina

La cantina

 

Una casa

Una casa

 

La lavandaia

La lavandaia

Altre fotografie sono visibili nella PhotoGallery raggiungibile con questo link.

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